Oleandra
di Marco Celati - mercoledì 22 novembre 2017 ore 16:02
Affido questo corpo al sonno, che gli sia propizio e lo ristori degli affanni del giorno. Lo consolino i sogni immemori. Affido questo corpo alla notte, agli astri lontani e ai satelliti orbitanti nel firmamento. Che l’accompagnino lungo il percorso del riposo e della veglia. Affido quest’anima al mondo, che gli appartenga, come il mondo alla Terra. Anche se non è vero, anche se gridano i popoli la loro ingiustizia, il loro riscatto mancato e la Terra giace riarsa. Affido questa vita alla vita, che segua il suo corso attraverso il destino ed il caso e consegno il dolore al dolore, la gioia alla gioia, la morte alla morte.
Quante volte ho recitato questa preghiera e ho pensato queste cose prima del lungo sonno! È passato tanto tempo dall’ultima volta, Marise, ricordi? Eravamo ancora entrambi vivi. O meglio vivo ero io, tu già stavi morendo. Ti chiesi come ti sentivi e te rispondesti: vita sulla vita, dolore sul dolore, morte sulla morte. Proprio così rispondesti. In francese, che era la tua lingua: vie sur la vie, douleur sur la douleur, mort sur la mort. Un maledetto cancro ti ha portato via e ti ho sepolto in un piccolo cimitero in Italia, sulle colline toscane. Qui vicino, dove ho vissuto. Ho dipinto, ho scolpito, ho avuto altra arte e altro amore. E ho affidato i nostri ricordi a una pietra. Un grande marmo bianco a cui ho dato la forma leggera di una foglia o di un fiore. Oleandra si chiama, come volevamo chiamare nostra figlia. Ho affidato il dolore alla pietra perché il dolore stesso è una pietra nel cuore, ma gli ho dato grazia e memoria. Le ho impresse nel marmo. Così è nata Oleandra. È stata messa nel rondò di una piccola città delle mie parti. E le tue ultime parole le ho incise in un basamento perché restassero per sempre, palesi e celate, come una dedica riservata da leggere in pubblico. E ho aggiunto “nube su nube”, perché questo siamo: nuvole. Bianche, come marmo scolpito nel cielo.
Il giorno dell’inaugurazione sventolava il tricolore, bianco, rosso e verde. Mi avvolgeva. Mancava soltanto il blu del tuo tricolore, ho pensato. Ma è stato solo un pensiero e anche te, come Oleandra, ormai eri solo un pensiero, una memoria dei vivi. Di chi ti aveva conosciuto, di chi ricordava ancora. Il rimpianto di un amore e di una figlia mai nata. Ah jeunesse, jeunesse, quelle tristesse! Per dare più élan, più slancio all’opera la mettemmo su due basi marmoree, di diversa altezza, che stesse inclinata e ci piacque la fissità di quel movimento che la materia prendeva. L’arte è vitalizzare la materia. Come un’istantanea che fissa per sempre un istante fuggevole. Così le cose hanno un’anima, una memoria e una prospettiva. Questo, credo, sia l’arte. Questo compito assolva e forse anche noi.
Molti anni sono trascorsi da allora. È stata la mia volta di morire, come sai. E ora sono anch’io soltanto un pensiero e un ricordo. A volte ci incontriamo nelle memorie rievocate, a volte nei sogni. E forse questo alla fine è stato tutto quanto: un sogno. Il sogno nostro e di altri che sognano di noi. Ma alla fine di questo autunno la nostra foglia è caduta, come per ironia della sorte. Forse c’è un autunno perfino per le foglie di marmo e il tempo si fa beffe di noi, Marise. E quanto avremmo voluto fosse per sempre dell’amore e dell’arte, nemmeno quello sembra destinato a durare. A restare intatto. Si è spezzato uno dei basamenti, il piccolo, su cui il peso gravava dello slancio che all’opera avevo voluto imprimere. Così ci fregano le migliori intenzioni, finché restiamo pesanti, ancorati alla Terra. Perdonami amore, credimi, è stato come se di nuovo anche il mio cuore, come il marmo, si fosse spezzato. Non so se i vivi saranno in grado di riparare a questo danno nel loro avaro tempo di crisi, issando di nuovo la pietra a forma di foglia o di fiore che avevo scolpito per loro, per te. Per noi. Dovrebbero, in fondo, perché non c’è speranza senza bellezza e non c’è bellezza senza speranza nella memoria privata e collettiva. E la memoria è affidata alla comunità dei viventi perché diventi futuro.
Quando eravamo ancora giovani e vivi, tu invidiavi e riprovavi la mia sfrontatezza, così avida di esistenza. Tu, così sensibile al mondo! Ma anche gli artisti lo sono, per questo prendono vita. Ricordi, Marise? Non provi rimorso, come fai a dormire? Mi chiedevi. Non bevo mai caffè dopo le sette, rispondevo scherzando. L’avevo sentito da un “duro” in un filmetto americano. Ma l’arte e la vita mi hanno insegnato che bisogna aspirare al bello e nello stesso tempo avere orrore di sé. Non siamo che memorie confuse. Marise cara, la mia narrazione, i miei racconti, i miei sogni sono il mio testamento, ciò che ho consegnato al tempo perché il tempo lo disperda. Spero non anche l’arte che affido all’umanità e al sentimento delle cose perché continui a commuoverci.
Marco Celati
Pontedera, 11 Novembre 2017
_________________________
“Oleandra” è una scultura di marmo bianco di Carrrara di Arturo Carmassi. Sul basamento crollato che la sosteneva c’era inciso “Nube su nube” e il nome dell’opera con la dedica: a Marise, Arturo. La moglie di Carmassi si chiamava Marise Druart. Le sue ultime parole, “vie sur la vie, doleur sur la doleur, mort sur la mort”, sono impresse in altre sculture. Il filmetto citato si chiama “Parker”. Il maestro non l’ha visto di sicuro, né può averlo mai raccontato a sua moglie che era morta assai prima. Le cose descritte sono vere, il loro collegamento è più arbitrario. Non siamo che memorie confuse. Perciò bisogna fare in modo che Oleandra riviva.
Marco Celati