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RACCOLTE & PAESAGGI — il Blog di Marco Celati

Marco Celati

MARCO CELATI vive e lavora in Valdera. Ama scrivere e dipingere e si definisce così: “Non sono un poeta, ma solo uno che scrive poesie. Non sono nemmeno uno scrittore, ma solo uno che scrive”.

Ferragosto a Quercianella

di Marco Celati - sabato 20 agosto 2016 ore 10:06

Ciao babbo come va? Dove ti appresti a passare il Ferragosto? Noi andiamo a casa di amici, verso Quercianella.

Quercianella! Dove vostro padre ha imparato a nuotare! La Cala dei Frati: scendendo dalla scogliera si vedeva il fondo del mare in trasparenza. E, risalendo la costa, i Bagni Paolieri, il Porticciolo, il Rogiolo, Sonnino, Cala del Leone, Calignaia, Calafuria. Scendendo verso sud c'erano le Cambi, Chioma, Fortullino. Erano bei posti. Sono stati i miei posti e i miei tempi. Sono contento che ora siano i vostri. Per Ferragosto sto a casa. È tradizione. Guai muoversi!

Quercianella! Quanto tempo. Non ricordo nemmeno più. Sarà un secolo. Avrò avuto sedici o diciassette anni, forse diciotto. Ma chissenefrega. Non mi va di ricordare con precisione. Non mi sono mai piaciute le date. Nella storia sono i concetti che contano. Ero giovane, questo era il concetto. E gli anni non sembravano contare allora.

Scoprii Quercianella per merito di un amico, anzi di una famiglia, anzi di due famiglie che mi ospitarono d'estate, per le vacanze. I miei genitori, da piccoli, ci portavano a Tonfano in Versilia. Un anno mi mandarono a Santo Stefano d'Aveto, nella colonia della Piaggio, sulle colline liguri. Vi avevano accesso i figli dei dipendenti, bisognosi suppongo. C'erano anche i francesi: allora la Piaggio aveva gli stabilimenti in Francia, a Fourchambault. La mattina c'era l'alzabandiera dei due tricolori. Piansi tanto. Mandarono a chiamare anche il mio babbo. Quell'estate i miei dissero che sarei andato con una famiglia di amici a Quercianella. Chiesi se c'era la sabbia, come a Tonfano. Mi risposero, veramente ci sono gli scogli. Piansi anche allora, preventivamente. La sabbia era per i bambini, i ragazzi, per giocare e per i signori. Gli scogli erano scomodi, selvaggi ed erano da poveri. E forse noi, proprio ricchi, non dovevamo essere. Ancora lacrime. Vedrai ti diverti, sei grande, ormai.

A Quercianella c'era un sole che spaccava le pietre, anche quelle della ferrovia. Le malelingue di città dicevano che quello era un posto dove ci si appoggiava al treno quando passava. Presi una di quelle "solate" che me la ricorderò per tutta la vita. Avevo delle galle dietro la schiena che divennero croste insopportabili. Mi ci spalmavano una mistura di olio e di chiara d'uovo, non so con quali effetti. Forse impanato e fritto...Ero ospite di una di quelle grandi famiglie cattoliche, un po' "trappiste", dove ognuno doveva vivere in grazia di Dio, arrangiandosi da sé. Più si arrangiava da se', più era in grazia di Dio. La parabola dei talenti era una "bucciata di co'omero". Eppure in qualche modo crebbi anch'io. Era tutto un po' avventuroso e naïf, si direbbe oggi. Si stava in una grande casa ombrosa a due piani con dei palmizi nel giardino terroso sul davanti. Era dalle parti della Stazione. Per andare al mare bastavano il costume, una maglietta e le ciabatte infradito: le prime di gomma che uscivano allora. Ti spaccavano l'incavo tra l'alluce e l'illice, poi ci facevi il callo. Erano tutte prove da uomini. Si andava lungo la ferrovia, sotto la massicciata e, senza appoggiarsi al treno, ci si infilava dentro un sottopasso, accucciandoci un po' e stando attenti a scansare le pozze di uno scolo non sempre beneodorante ed eravamo di là, nella strada che passava tra le case del paese. Si attraversava ed ecco la Cala dei Frati, a picco sul mare. Quando era calmo, si contavano gli scogli sommersi, si vedevano i branchi di pesci, tanto l'acqua era limpida. Scendevamo delle rampe improvvisate e un viottolo tra i massi e si era sulla spiaggia. In effetti la sabbia non c'era. Al più un ghiaino minuto che, con i piedi bagnati, faceva anche più male degli scogli più grandi. Le ciabatte era meglio toglierle perché scivolavi e incespicavi di più. Tutto era primitivo e meraviglioso. La gente era poca: pisani, pistoiesi, romani, ancora pochi fiorentini. Solo in seguito divenuti flagelli biblici: tutti, come locuste. Accanto alla Cala dei Frati, ci doveva essere quella delle suore. Rare volte le vedevamo fare il bagno con delle vesti bianche. Tutte coperte: povere sorelle, sembravano meduse sante, fantasmi di mare.

Nella cala, guardando il mare, a sinistra, c'erano scogli bassi, pieni di ricci, impraticabili. Sulla destra la scogliera scoscesa e al centro il passaggio per entrare in acqua. C'erano due scogli bianchi: "lo scoglino", fino a cui si toccava. E lo "scoglione", oltre il quale il fondale scendeva irrimediabilmente. Comunque o nuotavi o ti spaccavi i piedi. E così imparai a nuotare, a tenere gli occhi aperti sott'acqua e guardare dove i piedi potevi appoggiarli. Ricordo la prima volta che mi prestarono una maschera subacquea e vidi il fondo del mare, i pesci. Immagino quale dev'essere stata l'impressione di coloro che per la prima volta, nella loro vita, lo hanno visto, il mare. Così fu per me il mondo sottomarino. Sensazioni che non ho più avuto, colori che non ho più visto, in seguito, nei fondali grigi e depredati di quelle coste, una volta tornato. Ma forse era l'età, la giovinezza, forse è il tempo a rendere tutto più grigio. Nuotare però non andavo granché: scomposto, muovevo la testa qua e là, sopra l'acqua, come un ossesso e respiravo come un disperato. Bracciata corta, piedi bassi. A restare a galla, facendo la bicicletta come mi dicevano i grandi, facevo più fatica che nuotare, preferivo fare il morto per riprendere fiato. Pativo il freddo, ero magro. Insomma, benino. Volevo andare alle "pecorelle", una fila di scoglietti bassi, semi sommersi che davano l'idea di pecore al pascolo. Ma davano anche verso il largo, i più grandi ci facevano i tuffi. E così il miracolo avvenne: a furia di guardare quelli bravi nuotare, battendo il crawl, come si diceva, con la testa sott'acqua, anch'io mi cimentai. In effetti sì nuotava meglio e con minor sforzo, si stava più a pelo d'acqua, c'era solo un problema: come cazzo si faceva a respirare? Prendevo aria, ne prendevo ancora, poi scoppiavo e mi fermavo col fiatone. Ma come si fa? Devi soffiare l'acqua sotto, coglione! E poi inspirare di nuovo e senza alzare troppo la testa: girala solo di lato, sulla bracciata.

A volte si dice una bischerata! Che ci voleva?! Per la verità, non fu proprio così facile, ma insomma, dopo numerose, interminabili, prove e riprove, dopo ripetute e copiose bevute saline ed acqua che ti entrava nel naso, nelle orecchie, dappertutto, alla fine, caparbiamente, anch'io ci riuscii. Sapevo. Hai visto, ragazzo, non era difficile! Il primo tuffo alle "pecorelle" lo feci a seggiolina. Poi imparai di testa: rimasi mezz'ora, ritto sullo scoglio, il sole scendeva.

La sera con il gruppetto di ragazzi e ragazze che frequentavano la cala ci trattenevamo fino a tardi in spiaggia. Nuotavamo al tramonto, il mare si calmava: una tavola. Scorrevamo sulla superficie increspandola appena, leggeri. Andavamo al largo o lungo costa. In acqua c'eravamo solo noi. Si sentiva appena il ritmo cadenzato delle bracciate. Da lontano a volte arrivava il rumore di qualche barca a motore dei pescatori del posto. Nessuno portava ingombranti asciugamani. Dopo il bagno, ci sedevamo in fila, appoggiando la schiena al grande muro a retta di pietre e calce che stava al centro della cala. Il sole lo scaldava durante il giorno e la sera rilasciava quel calore benefico e così ci asciugavamo. La cala era nostra, il sole tramontava. Silenzio.

C'erano cale dove si accumulavano le alghe e dove gli scogli erano macchiati di catrame che le petroliere scaricavano al largo, in uscita dal porto di Livorno. Anche la nostra aveva il problema del catrame, a casa bisognava smacchiarsi i piedi e a volte il costume, con la trielina. Anche allora con quell'acqua limpida e trasparente, l'inquinamento. È bene non divenire mai lodatori del tempo passato. Non del tutto almeno.

E non tutto ricordo con soddisfazione. A una festa dove, chissà come e perché capitai, non feci nemmeno un giro di ballo. Non sapevo, mi vergognavo a imparare, a muovermi, a chiedere. Temevo il rifiuto. Ne avevo, anzi, un convincimento irrimediabile, un'insostenibile sicurezza. Ero più piccolo e i grandi mi prendevano per il culo. Feci compagnia al giradischi tutta la notte. Tutti ballavano: il twist, era da ganzi. Così si conoscevano le ragazze, era consentito persino toccarle nei lunghi lenti. Da allora non sono mai più andato a ballare. Ho sempre avuto vergogna, non ho mai vinto l'innata timidezza. Al massimo l'ho resa aggressiva. Poi un aristocratico, altezzoso e rosicante isolamento e la politica al primo posto hanno fatto il resto. Ci sono stato male.

Fu per tutto questo una vacanza memorabile, costitutiva della mia vita di allora, di ragazzo qual ero. E non fu una tappa isolata. Tornai più volte nelle estati di quegli anni a Quercianella. Avevo un amico di scuola, di quartiere e di giochi, Giovanni, la cui famiglia assomigliava a quell'altra di stampo volontarista cattolico, ancora più spartano se possibile. Mettevano, nei mesi estivi, una grande tenda, un avventuroso azzardo per l'epoca, per cui, non so come, avevano ottenuto il permesso. Al tempo il campeggio libero era consentito ai pochi pionieri che lo praticavano, ma era una tenuta privata delle suore e forse ci sarà stata un'intercessione particolare della Provvidenza, per quei buoni cristiani. D'altra parte il Paradiso è dei giusti. Il Paradiso era un grande spazio verde con campi coltivati e alberi ombrosi, proprio dietro la Stazione ferroviaria. Usavamo l'acqua della fontanella e i bagni pubblici della ferrovia. Quando non scendevamo in campo come Berlusconi, il babbo di Benigni e, una volta, il contadino delle suore che passò veloce con tanto di giornale, scoreggiando. Il giornale non era solo per leggere.

L'amico, che aveva fratelli di maggior età, mi invitò, per un po' di tempo, un paio di anni se ricordo bene. A volte vennero altri amici comuni. Si stava benissimo: una pacchia. C'erano lavori di corvée a turno: fare la spesa, cucinare, non ero versato, rigovernare, preferivo. Inoltre portare via i rifiuti nei cassonetti alla stazione e tenere pulito e in ordine l'accampamento: le tende a volte divenivano due o tre. Poi il mare e ancora mare e ancora e ancora. In tutte le cale dei dintorni che raggiungevamo a piedi o con la barca a remi di qualche conoscente del posto. Quella sì che era vita! La notte era dura addormentarsi, giovani sbruffoni e rompicoglioni come eravamo, ma poi il sonno arrivava e ci coglieva su materassini gonfiati e gommapiuma varia, appoggiati sulla nuda terra, ad attutire schiene non ancora provate dall'età. Una notte uno di noi si mise ad urlare: un serpente, un serpente! Si alzò di scatto, rimase un po' seduto nel buio della tenda, poi convenne che forse l'aveva sognato e si rimise a dormire, mandato da tutti affanculo. Oggi è il mio medico.

Nel frattempo, scoperto il mondo sottomarino, m'innamorai, come tutti, della pesca subacquea. Pinne, maschera pinocchio, gialla, chissà perché, e fucile a molla mini saetta. Di più il convento di casa non passava e poi per l'età era più che giusto. Anche troppa grazia Sant'Antonio. Lunghe escursioni, interminabili per me, per via del freddo che pativo in acqua. A volte dovevo uscire, tremebondo e livido, a scaldarmi sugli scogli. Per scaldarci non avevamo tute, indossavamo un maglione che fissavamo avvolgendoci intorno uno spago. S'imbeveva d'acqua, rimaneva un po' più calda al contatto del corpo, almeno quella era la sensazione, ma quando ti prendeva il freddo era tutto inutile. Esploravamo la costa, tra gli scogli. A volte s'infilzava perfino qualche pesce. Tordi d'alga, soprattutto: erano lenti e "tordi", appunto. Più facile preda. Non era un pesce pregiato, ma vi assicuro che, cucinato subito a pranzo con il ramerino colto nel campo, diveniva una specialità. E anche qualche polpo che poi andava rovesciato con le mani. I saraghi erano più rari, troppo veloci, i muggini andavano presi a riva, ma erano lunghi e stretti, ci voleva mira e culo.

Spesso si partiva a coppie, ma poi ognuno prendeva la sua direzione. Una volta, dopo il villino delle Cambi, in direzione di Chioma, verso il largo, ai Piloni, lo vidi, l'enorme pesce marino dalla grande bocca imbronciata: una cernia! Dice ci fossero da quelle parti. Era in acque non ancora troppo profonde. Mi immersi, ma era più la paura che l'ardimento. Ricordo che muovevo le pinne a più non posso, le orecchie mi facevano male, compensai, soffiando nel naso stringendolo tra le dita. Sparai anche un colpo a braccio teso: il mini saetta si chiamava così perché tirava piano e la corda era corta. Non lo arrivai nemmeno, meglio così. Non avevo nemmeno l'arpione, avevo solo il tridente. Ma il grande pesce non si curava di me, muoveva appena le pinne e filava veloce verso l'abisso, nel profondo blu. Risalii senza fiato. Cercai l'amico, raccontai. Non so se mi credette. Tante cose di noi restano nostre e soltanto nostre nella vita. A volte anche se le raccontiamo.

In seguito anche con la mia famiglia siamo tornati a Quercianella, nella grande casa dove fui ospitato la prima volta. Si stava con degli amici dei miei. L'amica della mamma, il primo giorno al mare, mise il piede su uno scoglio liscio e inclinato, a pelo d'acqua. Nessuno mai ci avrebbe messo il piede: soltanto chi praticava solo la sabbia come lei. Picchiò la testa, si produsse un taglio sulla tempia. Il giorno dopo se n'erano già andati. Al loro posto arrivarono i nostri zii.

Alcuni di noi facevano lunghe traversate in mare: dalla Cala dei Frati al Porticciolo e, a volte, ritorno. Anch'io cominciai a farne. Ma temevo il confronto. Andavo da solo, quando sentivo che ne avevo la forza e la voglia. Allora non c'era tanto traffico in mare, né si trovavano così tante meduse. Si nuotava senza occhialini. Una volta dal Porto ho fatto un bel tratto: inseguivo i miei amici che erano partiti in barca. Io ero arrivato più tardi. Ero rimasto in tenda, non mi sentivo granché. Presto però mi pentii e, di rincorsa, arrivai al molo, ma si erano già imbarcati. Mi buttai a nuoto. Li vedevo da lontano: via via smettevano di remare e allora mi pareva di raggiungerli, ma poi, gli stronzi, ripartivano e mi staccavano. Arrivai quasi davanti a Calignaia, stremato per la nuotata a strappi, un principio di crampi al polpaccio. Rinunciai, ripiegai nella Cala del Leone. È profonda, mi parve interminabile. Si tocca solo in prossimità della riva di ghiaino minuto. Mi sdraiai bocconi, due passi sopra il bagnasciuga. Vidi solo una coppia più in là e poi più nulla. Mi addormentai subito. Mi svegliai dopo un po', mi arrampicai fin sopra la strada e tornai al molo a riprendere ciabatte e maglietta, spaccandomi e bruciandomi i piedi sull'asfalto, sotto il sole accecante e stordente del primo pomeriggio. C'era una biondina su quella barca. Altre traversate lunghe ho fatto nel corso della vita.

Quando il mare era mosso e spumeggiante tra gli scogli era uno spettacolo, una sfida per noi. Andavamo nuotando contro le onde al largo: superandole di slancio si restava un po' in aria con il busto per poi affondare in acqua. Bisognava sapere dove e come uscire per superare la zona pericolosa dei frangiflutti e sapere come e quando nuotare, perfino come prendere aria, per rientrare sfruttando la corrente, non opponendosi inutilmente alla forza furiosa e trascinante del mare. Oggi non potrei più farlo, non ne avrei più il coraggio. Come quel tuffo dalla cima del molo, sotto la villa del Barone Sidney Sonnino, che raggiungevamo a nuoto dalla spiaggia del Rogiolo, dove c'erano i bagni. Stetti un tempo interminabile in cima al muretto per trovare la forza di buttarmi di sotto di testa. Poi alla fine mi decisi: giù a capofitto nel verde azzurro del mare. Sono tornato anni dopo, su quel molo e non ne ho più avuto il coraggio. Era un tuffo sforzato: alla base del porticciolo c'erano massi e scogliera. Bisognava tuffarsi in avanti, dove iniziava lo sprofondo. Non so se era l'incoscienza degli anni o se gli anni, dopo, mettono paura. Ma la paura a volte è amica della vita. E della vita, come del mare, bisogna avere rispetto.

Quella volta il mare era forte, i cavalloni si rovesciavano e stordivano, non dovevamo farci cogliere tra gli scogli bassi, nuotavamo un poco più al largo. Quando: aiuto, aiuto! Udimmo un urlo strozzato. Era un giovane in difficoltà. Quel giovane ebbe due volte fortuna: la prima che tra noi c'era un ragazzo robusto, un forte nuotatore, Marco, fratello mediano dell'amico che mi ospitava in tenda. La seconda che nella mia vita avrò messo, sì e no, due volte le pinne per nuotare, chissà perché fu una di quelle volte. Arrivammo in due a prenderlo. Il forte nuotatore e il sottoscritto, grazie alle pinne. Lo reggevamo sotto le spalle, uno di qua e uno di là. Era più grande di me, ma forse coetaneo di Marco che infatti riconobbe. Il mondo e il mare a volte sono piccoli. Gridò il suo cognome e gli disse: Salvami! Pasqualetti, sei te! Fu la risposta. O che giri? Poi gli spiegò velocemente che doveva respirare quando l'onda ci avrebbe superato e trattenere il fiato quando si spaccava su di noi. E lui faceva esattamente il contrario. Continuava a bere a più non posso e a vomitarci rumorosi rutti sul muso. Io continuavo a pinnare e sorreggere dalla mia parte. Marco mi disse, nel frastuono del mare, portiamolo al largo. Il Pasqualetti, dove le onde erano gonfie, ma non si spezzavano, riprese un po' fiato, ma chiedeva: quando siamo a riva? Presto, ora. Dalla cala misero in acqua un patino. Urlavano, i tappi, i tappi. Il patino arrivò, non si sa come, prendendo la corrente in un momento di tregua dei flutti e ci passò al largo. Girò e puntò diritto su di noi, spinto dall'onda. Arrivava veloce, in due eravamo troppi, Marco lasciò a me la presa per controllare le operazioni. Tienilo te, mi intimò. Lo tenni. Vidi arrivare il patino, a colpi di pinne tirai su più che potei il Pasqualetti che ci si aggrappò disperatamente come la mia nonna diceva degli affogati: che si attaccano ai rasoi. Mentre tiravo su lui, mi lasciai andare verso il fondo evitando che lo scafo mi colpisse perché non avevo granché voglia di immolarmi per il salvamento. Il patino mi passò sopra e, preso dal mare, filò via a riva e fu tutto. Marco ottenne i ringraziamenti eterni del Pasqualetti, nonché i complimenti e l'ammirazione del pubblico, specie femminile. A me nessuno badò, ero più piccolo. Mi sdraiai tra i sassi a riva a riprendere fiato. Marco però me lo disse che avevo dato una mano, anzi alla fine tutt'e due. Ma lui era grande e aveva condotto la cosa, era stato bravo. Oggi è un ingegnere, un imprenditore. L'aspirante affogato si sdraiò, mogio mogio, tra due ragazze. Fai fai il bischero se sai nuotare poco e il mare non lo conosci!

Quando il mare infuriava che proprio non si poteva fare il bagno e nessuno osava sfidarlo, un divertimento era la corsa tra gli scogli, lungo la riva. Si doveva correre a piedi scalzi, evitando i marosi, possibilmente senza bagnarsi. E non solo per gioco, ma perché con i piedi bagnati rischiavamo di scivolare di più. L'abilità consisteva nello scegliere, a colpo d'occhio e in velocità, gli scogli adatti su cui mettere i piedi o saltare durante la corsa. Si correva a lungo più forte che si poteva, si facevano interi tratti di costa. La scogliera con il frangersi e l'urlo del mare ci sembrava più aspra e selvaggia, primitiva. Primordiale come la natura. "Alliccia, alliccia!" ci incoraggiavamo a vicenda. Non vinceva nessuno, si era solo bravi a non farsi travolgere dal mare e a non spaccarsi gambe o caviglie. Mi sono spesso sbucciato a buono, ho sentito nella caduta un colpo secco nelle ossa, ma si vede che gli stupidi o gli ardimentosi hanno un santo dalla loro. E non avevo i piedi dolci di adesso.

A Quercianella, insomma, ho imparato a nuotare e sono diventato anche bravo. Abbastanza. La respirazione è buona, passabile lo stile, la nuotata non è veloce, ma efficace. Non sento troppo lo sforzo, posso andare avanti e può più la noia della fatica. Si nuota da soli, come spesso si vive. Iscrivemmo i figli a nuoto. Non risparmiai loro l'ansia delle prestazioni e delle competizioni da cui invece mi ero sempre tenuto esente. Si scaricano spesso sui figli, purtroppo, le nostre mancanze o segrete frustrazioni. Ma forse o proprio per questo, chissà, anche il mondo è diventato così: ansiogeno e performante. Ho capito che stavo invecchiando e che sono invecchiato, quando a nuoto hanno cominciato a stracciarmi e mi hanno stracciato. Ancora vado in piscina, al mare assai meno, e faccio un po' di vasche. A Quercianella ormai non torno più. Gli eredi delle famiglie che mi hanno ospitato a volte li incrocio, a volte ci si saluta. Con alcuni ci si conosce appena, con i più giovani per niente. Giovanni fa il medico, è un primario stimato in una città del nord. Ci siamo rivisti una sola volta, ad un matrimonio. Lo salutai, mi salutò. Sta bene, porta bene gli anni. Ha una bella famiglia. Non parla più nemmeno toscano.

Marco Celati

Pontedera, 15 Agosto 2016

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Un sentito ringraziamento, al di là degli anni e della vita, alle famiglie Carrara e Giusti per quelle indimenticabili estati di tanto tempo fa. 

Marco Celati

Articoli dal Blog “Raccolte & Paesaggi” di Marco Celati