La cena
di Marco Celati - venerdì 26 giugno 2015 ore 13:04
Ciao babbo, si cena insieme stasera? Volentieri, rispondo, ti aspetto. Poi penso: stasera è lunedì, la pizzeria di paese è chiusa, panico, cucinerò qualcosa. Non sono bravo a farlo, non mi piace, non ho il mito mediterraneo del buon mangiare e bere. Qualcosa ho imparato solo grazie ad un caro amico che mi conduceva alle sue cene gastronomiche, dove mentre mangi e bevi ti spiegano cosa mangi e cosa bevi e perché lo devi fare. Prima più che altro ero un frequentatore di fast food o un digiunatore, anche adesso lo slow food mi estenua. E ciò è particolarmente colpevole da parte mia perché ho conosciuto perfino il grande Carlin Petrin che mi spiegò le proprietà della pannocchia nostrana più povera di chicchi, però verace e bio. Ma non posso farci nulla, purtroppo ho creduto di essere un progressista. Anche quando leggo Tabucchi, Montalban, Camilleri e mi imbatto nelle compiaciute descrizioni di pasti o di ricette più o meno morali, salto le pagine. Almeno io non le brucio, come Pepe Carvalho. Ma per un mio figlio, se potessi, diventerei il topo Remy in "Ratatouille".
In realtà sarà il festival del precotto: vellutata di ceci e purè da scaldare al microonde. Di qualcosa si deve vivere e morire. E due scamerite cucinate con fretta e un po' d'amore, con olio e un po' di spezie, sfumate con aceto balsamico. Vino merlot & sangiovese, un po' meno tanninico per uno che nella sua prima vita era astemio. Pane del contadino, cotto a legna: il pane, non il contadino. Frutta & caffè e così me la cavo. L'apparecchiatura era stata sufficiente, ma coordinata. La casa arredata come un giacimento di esistenze. Si sparecchia, poi metterò a posto, intanto obbedisco come tutti alle leggi del caos. Ci sediamo sul divano, parliamo, vedendo distrattamente un film in TV. Sono vecchio o, prendendo in prestito la battuta di un amico arguto, diversamente giovane. Non so gestire il riposo e tantomeno il divano, così mi addormento. Mi sveglio e mio figlio si veste, è già ora di andare. Usciamo, l'accompagno alla macchina, facciamo due passi giù per la discesa. Il lavoro come va? La salute? Lo bacio, lo saluto: buonanotte, fai ammodo. Quando ci si lascia vorremmo dirci tutto quello che non ci siamo detti. È così che facciamo per rimanere, temo, insoddisfatti dei nostri incontri.
Rientro, rassetto e mi accorgo che il figlio ha girato per casa e giocato a freccette: potevamo farlo insieme, ma forse dormivo e così mi rendo conto che, come sempre, chissà cosa e quanto mi sono perso di lui. L'indomani gli manderò un messaggio e con un messaggio risponderà: tranquillo, era quando scaldavi la minestra. Mi vuol bene.
Non mi è mai piaciuto interrogare i figli, sono grandi e parlo troppo di me, ma se loro parlano ascolto. Così mi restano le parole e mi rendo conto che questo mio figlio incerto somiglia me più di quanto non credessi o sapessi. E non sarà un bene. È indeciso sulle strade del cuore e nessuno può consigliargli quale sia da quelle parti la più giusta direzione. Non certo chi, come me, ha confuso e perso diverse volte il cammino. Non c'è nessuna cura per l'amore. E cosa si sa in fondo dei figli? Poco o niente. Crescono come abbiamo potuto farli crescere e poi ad un certo punto sono loro stessi e vanno da se' e da soli scoprono, come noi, di non sapere dove. Di non sapere chi o che cosa siamo, qual'è il nostro significato e se c'è un significato possibile.
È come ascoltare una canzone di Leonard Cohen in inglese che non capisci, ma ti piace e poi cerchi le parole e ne capisci ancor meno, ma continua a piacerti. Ti fa compagnia.
E così i figli vanno nella vita e nel mondo e ci sembrano sprovvisti di tutto o vestiti troppo leggeri e volentieri gli offriremmo il nostro famoso impermeabile blu. Ma non lo vogliono.
È colpa nostra o loro scelta? Questo mio figlio dice che si prenderà una pausa di riflessione, che starà presso di se'. E io non so che dirgli. Se vivere e spaccare la vita imbrogliando le carte e barando pur di essere felice e provarci. Oppure essere serio e prendere impegni e tenere a freno la testa ed il cuore e costruire un percorso che porta e che porta...Vorrei dirti che il futuro è il futuro e dovrebbe competerti, dovreste strapparcelo di mano e dare un senso palese al progresso e non temere e non farci temere.
Ma riesco solo ad amarti come non ho mai amato nemmeno me stesso e nessuno, perché sei una parte di me che non è più me, è altro da me. I figli si amano e si proteggono stupidamente e vorrei dirti invece: vai figlio incerto e fragile come un amico, non sono più tuo padre e lo sarò sempre, non sono stato tuo amico è sempre lo sarò. Vai e danza se puoi fino alla fine dell'amore, fino alla fine del mondo e anche più in là.
Pontedera 20 Aprile 2015
Marco Celati