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venerdì 13 dicembre 2024

RACCOLTE & PAESAGGI — il Blog di Marco Celati

Marco Celati

MARCO CELATI vive e lavora in Valdera. Ama scrivere e dipingere e si definisce così: “Non sono un poeta, ma solo uno che scrive poesie. Non sono nemmeno uno scrittore, ma solo uno che scrive”.

Belle lettere

di Marco Celati - mercoledì 17 maggio 2023 ore 08:00

Capo Verde. Isola di San Vincenzo. Porto di Mindelo. Solita panchina. Tramonto. Il commissario Favati, ex per la verità e al secolo Nedo, sta seduto, guarda la baia, attende il vento, fa già caldo, è quasi assopito e rimugina pensieri. La testa fa ancora male, dopo l’ultima disavventura, per il colpo ricevuto. Gli sembra di sentire ancora l’odore e il sapore ferroso del sangue, lungo il volto. La vita, la vita! Anche qui a Capo Verde, nelle isole su cui si è rifugiato dopo la pensione, continua a inseguirlo. A volte gli pare di essere ancora in qualche lembo dell’Arcipelago Toscano, magari la Capraia dorsuta, e altre volte, se proprio chiude gli occhi e si concentra, ricorda perfino la linea delle colline in Valdera che piegano l’orizzonte, se non fosse che le Isole di Barlavento, come quelle di Sotavento, sono al largo dell’Atlantico, circondate dall’Oceano mare, il paesaggio è più brusco, vulcanico, e il colore è più sabbia che verde. Malinconia, ma non rimpianto. È che tutto quel mare intorno, così cupo e profondo, era troppo per lui. In gioventù era stato un nuotatore di grandi distanze, ma era un altro mare e un altro tempo. Ora gli era insorta paura dei natanti, delle meduse, della bestia marina e dell’abisso. Così si limitava a dei bagni veloci lungo riva e più spesso stava a guardarlo, atterrito e ammirato, quell’Oceano infinito, inquieto, carico di rotte, gonfio di presagi. Sopra vento o Sotto vento sono gli Alisei, i propizi, quelli di Cristoforo Colombo e dei navigatori scopritori di mondi. E anche della tratta degli schiavi. Avvisano i marinai dello spiegare delle vele e gli uomini a non pisciare controvento. Sta su quella panchina, perché è vicina alla casa in affitto sul porto, perché la sera c’è un lampione fioco che oscilla nel vento, perché si vede il molo ed il mare, perché ci veniva con Pilar, prima che se ne andasse, a far passare la notte sotto il cielo stellato. E a volte la luna.

Perez, il comandante della Polizia, glielo ripeteva, commissario, non stia sempre su quella panchina, può divenire facile bersaglio per qualche malintenzionato, è già successo. Ma niente ci è più nemico di noi stessi. C’era una frase in latino, di chi era? Capace di quello spocchioso di Cicerone. Ma era vero: niente e nessuno, inimicius quam sibi ipse. A volte lo invitavano a qualche iniziativa culturale al Centrum Sete Sois Sete Luas: “L’attualità di Saramago”. Addirittura a qualche festa danzante. A fine anno. Perez era un bravo ballerino e lui, nonostante le lezioni alla scuola di ballo di Pilar, era un sacco di patate. E quando il comandante si esibiva in un ocho adelante o in un ocho atras con Pilar, il commissario guardava con invidia e rosicava perché il tango gli piaceva ed era geloso di quel tanghèro: era stato il più promettente allievo della scuola.

Commissario, mi dispiace per Pilar, ma lo vuole un consiglio? La smetta di frequentare il passato, cerchi di frequentare il futuro. E intanto dovrebbe partecipare di più alla vita! Partecipare in presenza, come si dice. Ma il commissario, saranno gli anni o la distanza, cominciava a preferire l’assenza. Tanto più che oggi si può partecipare anche in assenza. Si possono riconciliare gli anni della partecipazione e dell’esserci ad ogni costo con quelli del riflusso, del non esserci, del fuggire altrove. Ci si collega in rete, si ascolta e possiamo perfino intervenire senza essere presenti. Che tentazione irresistibile! Isolati e interconnessi, ognuno nella propria caverna a fare i conti con le proprie ombre, senza la fatica di immaginare un mondo fuori, magari nuovo. Emozionati, con poche passioni. Egocentrici, non egoisti. Malinconici, senza nostalgia. Evitare la folla, il referendum sul potere a cui siamo ridotti e a cui apatia e assenteismo sono funzionali. La folla che democraticamente uccise Socrate e Cristo: una storia di sconfitti. Sì, ci vorrebbe una guida o guidarsi da soli, pensare nuovi mondi, nuove vite, più libere e giuste. Essere amanti del sapere, stare nel mezzo tra l’ignorante e il sapiente. E desiderare di conoscere.

Il commissario non ci riusciva, ma ci pensava e ripensava perché il cervello piglia in tanti modi e mica tutti sani. E chissà poi da dove vengono i pensieri -letture, scuole, memoria, iperuranio- e chissà dove vanno a finire, dove portano noi e le cose. Ritornava a qualche manifestazione studentesca e operaia che avevano dovuto contenere, reprimere. Quello del poliziotto è un duro lavoro, ma qualcuno lo deve pur fare. Qualche colpo di troppo, incalzati dal grido «polizia fascista!». E alcuni colleghi che, dato che ci chiamate fascisti, allora lo votiamo davvero il MSI e magari erano solo bravi democristiani, come il fido Calo’, il suo collega più stretto e più caro. Ora di stanza permanente, a servizio dei nipoti. Ma era tanto tempo fa, un altro secolo, un altro mondo. Un’altra storia. La storia insegna, ma non ha scolari, lo diceva Gramsci. Forse.

Il commissario era confuso. Gli capitava di buttare un occhio distratto a notizie meno significative che venivano dall’Italia. Quelle che lo incuriosivano. Dalla moltiplicazione evangelica e cristiana di pani e pesci siamo ridotti alla veggente televisiva e mariana che moltiplica pizza e gnocchi. E ‘sticazzi, a quando pizza e fichi? Intanto che le madonne piangono lacrime di sangue di maiale. A volte persino d’uomo, inteso come maschio. Leggeva queste cose perché ne voleva ridere, tenere allenata l’ironia, la comicità involontaria, la migliore. E se ne stava lì con la sua vita appesa, rimaneva fino a notte avanzata, inoltrata nel giorno che viene, ad accumulare sonno e sogni e poi rincasava.

Una di quelle sere, all’imbrunire, che ancora l’orizzonte rosseggia e le barche escono dal porto per le reti e qualcuna rientra carica di turisti e c’è quel brusio, ci sono i richiami, le voci, lo stridio dei gabbiani e quel rumore del mare e tutto, tutto è come un torpore che avvolge lo spazio e il tempo, al commissario devono essersi chiusi gli occhi. Forse si è assopito. Non saprebbe dire per quanto, ad una certa età capita di cadere nel dormiveglia. Essere desti e perdersi nella stanchezza della vita. Un attimo o forse più. Quando si rinviene, sulla panchina accanto a lui c’è una lettera. Chi l’ha messa? L’apre. Nella lettera c’è un biglietto con scritta a mano, in corsivo, una frase: Um rato branco marfim e assim você existe”. E una sigla: “D”. La firma? Gli ci vuole un po’ a riscuotersi dalla sorpresa e con il suo portoghese scarso, nonostante gli anni a Capo Verde, traduce: “un topo bianco d’avorio e così esisti”. Che vuol dire? Qualcosa si ricorda, ma cosa? È un verso? Una poesia, pensa, mentre ripercorre la strada di casa. Controlla sull’Antologia e su qualche libro. Avrebbe potuto interrogare il cellulare o il tablet, ma non vuole farlo, affidarsi come sempre all’intelligenza artificiale, perché lo sentiva, lo sapeva, la memoria fa riaffiorare le cose a ricercarle. C’erano frasi sottolineate a matita da un estraneo che era stato lui: qui, tra presenza e nome, la vera vita è nel nome, era una di queste. C’era anche un segnalibro nascosto nella piega delle pagine. Era Montale! Dora Markus! E quel verso era lo splendido finale della prima parte della poesia che parla della giovane donna austriaca di origine ebraica e di un viaggio a Ravenna. Come è possibile? Si chiede. Montale a Capo Verde! Chi ha lasciato il biglietto? “D” stava dunque per Dora? Meglio dormirci su. Un sonno inquieto. Credette di aver sognato, gli sembrava che stesse piovendo, di essersi affacciato sul terrazzo a scrutare la notte e quella pioggia rara sulle isole dell’Oceano migrabonde. Piove. Piove perché se non sei è solo la mancanza. Ausencia. Era stato un sogno? Non ne era sicuro, non se ne ricordava.

Passarono giorni, quando non si capiscono le cose, meglio dimenticarle. Si fa meno fatica. Andare in giro, in spiaggia, per la spesa al mercato della frutta e del pesce. Cucinarsi qualcosa. Le solite cose. La sera tornare sulla sua panchina a parlare con Pilar. Quando chiudeva gli occhi gli sembrava che ci fosse ancora. Che gli sedesse ancora accanto. Il crepuscolo in un molle riverbero diffondeva l’ultimo chiarore subacqueo. Un fruscio leggero da dietro la siepe lo destò da quella sonnolenza indotta, sulla panchina era comparsa un’altra lettera, ma questa volta se ne accorse e lo vide. Lo vide il bambino che si era avvicinato e ora si confondeva con gli altri ninõs di strada che sciamavano dalle vie del porto. Aspettò un po’, per non farsi scoprire e prese a seguirlo, la lettera piegata in tasca. Il ragazzino s’incamminò verso il centro e lui dietro: un poliziotto è un poliziotto. È un duro mestiere, con quel che ne segue. Ma aveva appena finito di pensarlo che ne perse le tracce. Nel dedalo affollato delle bancarelle del centro, ancora esposte la sera, il bambino era sparito, dileguato. Smarrito. Mai come il commissario, rimasto con un palmo di naso a pensare che non era più mestiere. Si fruga in tasca. Nella lettera c’era qualcosa. Se lo immaginava: un topolino di avorio, un amuleto, e un biglietto con la sigla “D”. Ma è tardi, sempre più tardi. Meglio rincasare.

Il giorno dopo decide di riprendere le ricerche e si avventura per il mercatino. Ci sono frutti colorati, variopinti, un’esplosione, semi, farine, pesci essiccati e vivi, oggetti di artigianato locale e africano. E c’è una bancarella che lo incuriosisce: ci sono corna intarsiate e oggetti d’avorio. Chissà se legali. Dietro il banco, la venditrice, una signora anziana lo guarda con insistenza e gli chiede se lui è un commissario e gli consegna una lettera. Dice che una donna, che ha comprato un porta fortuna, l’ha lasciata per lui. Sapeva che sarebbe venuto. Lui chiede chi è, la conosce? Não senhor, eu não sei. Apre la lettera. Dentro c’è un biglietto con scritto: CNAD con la lettera “D” sottolineata. Cosa vuol dire CNAD? Chiede. La signora ride. Você não sabe? Ah! Si riprende il commissario. Desculpe-me, senhora. CNAD è un acronimo, è il Centro Nacional de Arte, Artesanato e Design. È stato inaugurato da poco. Ma chi è “D” ? Una donna? E che vuole da lui? Perché questo mistero? Era incuriosito, ma spazientito da quella specie di caccia al tesoro. L’ultima volta che aveva preso parte a una caccia al tesoro era ancora un giovane dell’Azione Cattolica, poi aveva optato per una sana e consapevole libidine, e si era salvato.

Il Centro Nazionale di Arte, Artigianato e Design è una struttura modernissima sorta a Mindelo accanto ad una villa coloniale. La parete esterna dell’edificio sovrastante è formata da migliaia di cerchi di metallo colorato ricavati da barili. Quelli che si usano come contenitori per le spedizioni. Il senso è quello di riciclare, moltiplicare le poche risorse senza sprecarle. Il risultato è una parete ventilata -i cerchi sono mobili- e un caleidoscopio di colori. Ad ogni colore corrisponde una nota, così si uniscono colori e suoni. La villa coloniale che fa parte del Centro è stata tante cose, negli anni più recenti un Liceo e la sede di Radio Barlavento, dove Césaria Évora registrò il suo primo disco. Ora vi si tengono mostre di arte contemporanea. Tradizione e futuro. Il commissario era stato all’inaugurazione in estate, una delle poche uscite che si era concesso. Tornare al Centro gli dava un misto di piacere e di ansia. Alla reception trova un’altra lettera. Qualcuno l’ha lasciata all’ingresso, ma nessuno sa, o ricorda chi. È indirizzata a lui: commissario Nedo Favati. Contiene una foto in bianco e nero di un paio di gambe femminili e in fondo alla foto non poteva mancare e inquietare, la sigla “D”. Il lembo della gonna, colorata e plissettata, sul davanti è più corta rispetto al retro. Sembra che maliziosamente la donna la stia sollevando per mostrare le gambe, le scarpe sono basse, forse è alta, e questi chiaramente sono pensieri maschili. Ma perché quelle gambe meravigliose? E di chi sono?

La vita è fatta di stranezze e questa lo era. Una stranezza, un mistero irrisolto. Tutti ci aspettiamo di più dalle cose che capitano. Se c’è un problema vorremmo la soluzione. Se fosse un giallo o un noir vorremmo l’assassino. È anche vero che non tutto nella vita si risolve. Anzi! La vita più spesso è una serie di episodi inconcludenti. E noi che pretendiamo chissà cosa, che vorremmo storie forti, non possiamo che restare delusi. Così si sentiva il commissario. Rigirando tra le mani le lettere, l’amuleto, la foto, continuava a non capire, a chiedersi cosa c’era sotto, chi aveva architettato quella messa in scena è perché. Ogni giorno aspettava un nuovo evento, un contatto, qualcosa che spiegasse tutto, fornisse un volto e una ragione. Ma nei giorni a seguire, niente. E niente. E ancora niente. Capace era stata una goliardata di qualche imbecille in vena di scherzi. Smise di pensarci, così la vita e il tempo ripresero il loro corso normale, non meno inconcludente e irragionevole. Un giorno segue l’altro e tutto che si fa strano e difficile, impossibile o scontato e nulla torna. Se non disguidi, incomprensioni, ricordi tristi, perdite. Vivere.

Venne il carnevale. A San Vincenzo, il Carnaval è una manifestazione esplosiva paragonabile a quella brasiliana. “São Vicente é um brasilin” canta Césaria Évora, un carnevale pieno di allegria e di colori. Ogni quartiere presenta un tema e fabbrica artigianalmente nel più assoluto segreto i propri carri e costumi. Il Martedì Grasso le strade di Mindelo si animano, parte la festa e comincia la gara tra carri e maschere. Le sfilate si aprono al suono della musica, della gioia e delle danze sfrenate. I capoverdiani e soprattutto le capoverdiane ci sanno fare. L’atmosfera è indescrivibile, un misto di frastuono caotico, gioia e morabeza. La morabeza è la felicità ospitale mostrata dagli abitanti. Un’indole dell’anima, come la teranga dei senegalesi. Quella che il commissario non ha e non prova. Il senso è dimenticare i problemi, fuggire dal tran tran quotidiano e, mascherandosi, fuggire da se stessi. E Dio sa se ce ne sia bisogno! Una liberazione festosa e collettiva, che raggiunge il suo apice durante le parate. Le strade si riempiono, i bar esplodono, scorrono fiumi di grogue, il distillato di canna da zucchero simile al rum che accende il cuore e la testa. E a volte qualche rissa. Ma a Carnevale no, non sarebbe lecito, forse proprio perché tutto è lecito. Donne, uomini, bambini, anziani e giovani si riversano per le vie di Mindelo, in una kermesse partecipativa senza eguali, che accoglie genti da tutte le isole di Capo Verde e turisti stranieri da ogni dove. Lo dicono tutte le guide e le locandine. Quei giorni non si può stare in casa o seduti in panchina a guardare il mondo, perché il mondo ti viene a cercare per coinvolgerti e travolgerti. E così anche il commissario Favati, al secolo sempre Nedo, pur non riuscendo a mascherarsi e ad interpretare altro che se stesso, si lasciava portare dal Carnaval, seguiva quel flusso di anime festose e vitali e alla fine pensava, ma sì, fanculo il mondo e chi lo vuole così ingiusto e schifoso, fanculo tutti! Cercava di buttare alle ortiche il suo superego per dare spazio ad un nuovo io egemone che s’imponesse sulle deprimenti coorti confederate delle sue anime. Si sorprese perfino colto in un guizzo di ballo, in un vortice almeno all’apparenza spensierato e sculettante. È la morna, la coladeira, il funanà, è la musica, bellezza, e tu non puoi farci niente. Niente, se non ballare. Ah, se Pilar potesse vedermi! E allora pensava, oh Pilar, il tuo carnevale sarà più triste stanotte del mio! E tutto si fa strano e difficile! Impossibile. Voglio tornare alla via dove con te intristisco, alle mie, alle tue sere, alle primavere senza memoria che non fioriscono più. E mentre la calca lo urtava, lo abbracciava, lo stringeva, sospingendolo di qua e di là, cercava disperatamente una via d’uscita, la via verso il porto, la via di casa. L’effetto carnevale era finito lasciandogli addosso la malinconia di certi ultimi dell’anno, quando per divertirti ad ogni costo finisci per deprimerti e sentire il vuoto di cui è piena la vita.

Tentò di consolarsi con un piatto di cachupa, versione pobre, stufato di mais, fagioli, verdure varie, pesce e il lusso di un bicchiere di vino di Fogo, ma la musica era troppo alta e troppo affollata la trattoria. Arrivò a casa che era già notte. Spossato, stanco morto, provato da tanta presenza e immalinconito dall’assenza che sentiva intorno a sé è dentro di sé. Forse è ciò che qui chiamano sodade, che è come una tristezza privata e condivisa, della gente, dei popoli, della terra. Nel cielo si accesero ed esplosero i fuochi d’artificio. Scoppiando, crepitando, sfavillando a intermittenza illuminavano la baia, il cielo, il mare. Affacciato al terrazzino assisteva a quello spettacolo pirotecnico e intanto si era alzato più forte il vento e gli fece freddo. Anche se il tempo era buono, non era buono per lui. Rientrò, chiuse le imposte e fece per coricarsi. Si tolse la giacca e la mise a cavallo della sedia di camera. Una delle tasche era leggermente rigonfia, forse un fazzoletto, le chiavi, mise dentro la mano e tirò fuori una lettera. Ancora! Come c’era finita? Chi ce l’aveva messa? Quando? Probabilmente nel pigia pigia della folla e lui manco se n’era accorto. Qualche vistosa figurante, in costumi adamitici, l’aveva perfino abbracciato! Gli aveva buttato le braccia al collo. Evidentemente non solo al collo. Ecco come doveva essere andata. Si sdraiò sul letto, usando due guanciali come poggia schiena e aprì la lettera. Era scritta a mano, era lunga. Lesse.

Caro commissario,

mi scuso per il fastidio, se fastidio è stato recato. In effetti le mie potrebbero essere considerate molestie letterarie. Ma in fondo si tratta di un gioco. E d’altra parte come attirare l’attenzione di un poliziotto se non con una pista misteriosa che lo costringa all’avvio di un’indagine? Del resto, un tempo si scrivevano lettere e io non posseggo un cellulare, detesto i social e diffido dell’intelligenza artificiale. Faccio ancora uso di quella naturale, per quanto soccorre. E di una macchina fotografica portatile, per quando occorre. Come saprà probabilmente Montale non ha mai conosciuto Dora Markus se non per una foto delle sue gambe che l’amico Bobi Bazlen gli inviò, chiedendogli di dedicarle una poesia. Bazlen che fece scrivere, ma in vita sua non scrisse mai: un influencer antesignano! Almeno così si sa e così credo di sapere. E anche lei saprà che la foto sembra fosse stata scattata dalla loro comune amica Gerti, quella del Carnevale. Buffe no, queste coincidenze parallele? E saprà anche che forse nella famosa poesia, quella del topo salvifico, le due donne, Dora e Gerti, si sovrappongono. Le gambe descritte da Bazlen come meravigliose, a dire la verità, non mi sembrano granché, ma dipende dai gusti e dalle epoche e forse, già mostrarle, al tempo costituiva un’accattivante meraviglia. Le gambe che le ho inviato sono le mie e la prego di evitare commenti o paragoni. A me comunque sembrano migliori. Conosco Montale perché ho studiato in Italia, un secolo fa. Ebbene sì, semmai sono esistita ed esisto -si può vivere non esistendo e viceversa- “D” sono io, c’est moi. Dora, o forse Dores? Dores è di origine spagnola, una contrazione di Dolores e significa “signora dei dolori”. Nonostante il significato leggermente inquietante -“la tua irrequietudine mi fa pensare…”- il nome è abbastanza popolare tra portoghesi e creoli. E perché non il più rassicurante Doroteia, che combina le parole greche, “doron”, dono, e theos”, Dio? Dono di Dio. Troppa grazia? Le parole tra noi leggere cadono e restiamo nel dubbio. Conoscevo Pilar che mi parlava di lei e delle sue passioni e mi dispiace tanto, anch’io sono sopravvissuta alla perdita di affetti cari. È un atroce privilegio dell’età e della vita, per chi vi resiste. E se infine posso darti del tu, commissario, sono sola come te. Siamo due persone sole. Che significa anche che siamo solo due persone e qui c’è troppo cielo, troppo mare, ci sono troppe albe e tramonti da passare su una panchina ad osservare ed esistere. C’è fin troppa vita con la sua feroce e dolce insensatezza. E chissà se ci basta un amuleto. A presto? Buonanotte. “D”.

Ecco, non era un giallo, né un noir, non c’erano vicende sconvolgenti con il momento “what the fuck”. Non c’erano trame oscure, delitti, niente da svelare. O forse tutto. Era un rosa. Meglio Palaia! Come dicono in Valdera e chissà come si dice in portoghese. Perché tutto resta in sospeso, irrisolto come la vita. Inquietante come un punto interrogativo lasciato senza risposta. Lo sapeva o credeva di saperlo, ma non fece in tempo a pensarlo, stava già dormendo. Era scivolato nel sonno come un bimbo, con la lettera ancora in mano e, sul volto, quasi un sorriso.

Marco Celati

Pontedera, Maggio 2023

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P.S. Il commissario mi è venuto trovare una sera, qualche tempo fa. È apparso che stavo quasi dormendo, rimproverandomi ancora una volta per il cognome che gli ho dato, Favati, e per il nome in aggiunta, Nedo, che, a suo dire, gli avrebbero precluso chissà quali successi. Ho risposto che il nome era nato per uno sfottò fra compagni di vendemmie e bevute, che sarebbero una cosa vera, una cosa che conta tra quelle più importanti, se non fosse che tutto si perde, anche le cose più vere. E comunque era meglio così, così scrivere era solo per scrivere. Lettere e racconti per essere letti agli amici. E carta e alberi non se ne sprecano. E poi i limiti sono dati dal nome del protagonista, ma anche dall’autore. Mi dispiace, però bisogna saperlo. Farsene una ragione. Ma il commissario voleva soprattutto chiedermi perché mi stavo dimenticando di lui e dirmi che, nella sua tristezza, voleva andare avanti, nonostante tutto, senza Pilar che tanto aveva amato, vivere ancora. E quando ha saputo del titolo che volevo dare al racconto, “Favati more”, si è incazzato ed è stato inutile replicare che more” è inglese e vuol dire “ancora”. Lo so, ma non faccia il furbo con me, ha detto, siamo toscani entrambi, non scherziamo con le parole! Vabbè, il titolo “Belle lettere” è più evocativo, anche se pretenzioso. Dimostrava il commissario, comunque, più resistenza e più forza di me che sono il suo autore e vorrei portare in fretta alla fine con me, personaggi e racconti. Come questo che deve molto a disordinate quanto preziose letture che qua o là ho saccheggiato: “Le occasioni” e altro di Montale, “Lo stadio di Wimbledon” di Daniele del Giudice e Sostiene Pereira” di Tabucchi. Ed è anche beneficiario di una lezione in rete del filosofo Alfonso Maurizio Iacono sull’amore per le proprie catene e il mito della caverna di Platone. Di tutto poco ricordo e poco, per mia colpa, ho capito: a chi ho preso di più e a chi meno, ma a tutti sono grato. Ovviamente a Césaria Évora, perfino ad Adelmo Fornaciari, in arte Zucchero, che sta a Pontremoli. E tutto torna. Tutto è comprensibile e niente lo è.

Dora Markus - Testo - Parafrasi - Analisi - Scuola e cultura

https://www.sololibri.net/carnevale-gerti-poesia-eugenio-montale.html

“Due nel crepuscolo”, Eugenio Montale “La bufera e altro”

https://youtu.be/Y4fmE2Ad6eU

Césaria Évora “Carnaval de São Vícente”

https://youtu.be/LGDTQG4eoQg

Césaria Évora, Goran Bregović, “Ausencia”

https://youtu.be/mDEbkme11Gg

Marco Celati

Articoli dal Blog “Raccolte & Paesaggi” di Marco Celati